Taiyo Matsumoto e i fantasmi dell’infanzia
Taiyo Matsumoto è ormai noto, illustratore e autore di fumetti giapponese; ospite dell’edizione di quest’anno del Lucca Comics, si è da poco conclusa insieme al festival, la mostra a lui dedicata, che insieme a tavole inedite realizzate durante i suoi anni di studio in Europa, a Parigi, ha portato nel nostro paese anche i bellissimi originali di Tekkon Kinkreet e Sunny.
Matsumoto è un uomo piccolo, che da poco ha compiuto i cinquant’anni, ma ha ancora la pelle fresca e gli occhi vergini di un bambino, le sue spalle sono esili eppure, come i suoi lavori testimoniano, hanno portato pesi enormi, senza mai piegarsi, è rimasto flessibile, come il bambino che sguscia via dall’abbraccio troppo stretto della zia invadente. Forse questa sua elasticità è dovuta proprio al fumetto, alla possibilità di potersi esprimere attraverso le sue storie, a volte urlando altre volte invece, parlando quasi a bassa voce, come se ti stesse raccontando un segreto.
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Infanzie
Parlare d’infanzia è necessariamente parlare di sé, è un’analisi interiore, un’operazione da chirurgo: bisogna letteralmente, aprirsi e guardarsi dentro, per questa ragione, non è una strada che intraprendono tutti gli scrittori e/o gli illustratori. L’unico modo per non cadere in stereotipi e luoghi comuni è quello di essere sinceri, con gli altri e con se stessi, dire tutta la verità, quella che ti impedisce di guardare altrove. Personalmente trovo disarmante un lavoro che si propone di essere così brutalmente trasparente, verso noi lettori, e verso lo scrittore stesso, ma proprio per questa ragione, sono attratta da questo tipo di storie come un bambino lo è dal fuoco. Taiyo Matsumoto non scrive per l’infanzia, ma scrive dei suoi fantasmi, e la forza con cui la disegna e la racconta, è così travolgente che subito penso ai grandi artisti del cinema, o della letteratura.
Ingmar Bergman una volta disse
In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà.
Una descrizione questa che ci riporta subito alla mente Fanny e Alexander, il più autobiografico dei film di Bergman, dove ‘magia’ e ‘pappa quotidiana’, ‘terrore’ e ‘gioia sconfinata’ si alternano in un ritmo proprio solo dei bambini, che sono capaci di passare dal riso al pianto in un battito di ciglia.
Tove Jansson, illustratrice e scrittrice per l’infanzia invece disse
Senza un’infanzia felice non avrei mai incominciato a scrivere
Lei, a cui dobbiamo così tanti bei racconti, così tanti bei libri, e così tanti bei fumetti, per bambini, adulti e vecchi, fa partire tutto dalla sua infanzia.
Chi nel bene e chi nel male, scrittori e artisti di tutto il mondo hanno sempre tratto dal ricordo, o meglio dalle esperienze dell’infanzia, la materia prima della loro creatività.
Ma c’è di più.
In una lettera per il settantesimo compleanno di Ingmar Bergman, Akira Kurosawa scriveva
Un essere umano nasce bambino, diventa ragazzo, passa attraverso la gioventù, raggiunge il pieno della vita e infine torna ad essere bambino prima della conclusione. Questo è, a mio avviso, il modo ideale di vita.
Un cerchio che si chiude, che riparte dall’inizio, ecco cos’è davvero l‘Infanzia per noi, (perché essa non può mai essere per il bambino, ma solo per l’ormai nostalgico adulto).
In questo senso, l’Infanzia come fantasma del passato, ricompare nel presente, restituendoci l’eternità, in un moto circolare che ci riporta ad essere sempre ciò che siamo e/o eravamo. Anche per Nietzsche poi, il fanciullo era l’ultimo stadio a cui arrivare, per concludere le metamorfosi dell’uomo.
Perché il fanciullo è l’innocenza, è l’oblio: un ricominciare, un gioco, una ruota che gira per sé stessa, un primo movimento, una santa affermazione.
Taiyo Matsumoto, come artista, ha compiuto gli stessi passi di questo valzer solitario che si balla con se stessi, e le due opere che più testimoniano questo processo, sono Tekkon Kinkreet (1993-1994) e Sunny (2010-2014)
Nella sua mostra a Lucca, All you need is love, erano presenti molte tavole tratte da questi due lavori, la maggior parte a dire il vero, e la delicatezza e insieme la forza con cui, Taiyo Matsumoto è stato capace di rappresentare proprio quegli attimi sottratti al tempo, i sogni ad occhi aperti, i tesori dimenticati sul cruscotto di una vecchia auto, che così bene descrivono il piccolo regno dei bambini, dimostrano come questo autore riesca a parlarci con la sincerità e l’occhio attento del fanciullo, ma soprattutto dell’adulto che conserva ancora intatto l’innato stupore per la vita.
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Sunny e Tekkon Kinkreet, il Sole e il Cemento
I bambini non hanno parole per esprimere il mondo, loro lo possiedono, non lo parlano. L’infanzia è priva di parole, e per raccontarla non ci resta dunque che usarne le immagini. Forse è stato proprio grazie a questo legame privilegiato che esiste tra ricordo immagine e disegno, tra ‘anima-occhio-mano’ che Taiyo Matsumoto è riuscito a restituirci così bene, tramite i suoi fumetti, la mappa completa del castello infestato dalla e della sua infanzia. I suoi ricordi a volte sono colorati, disegnati su una carta già ingiallita dal tempo, come in Sunny altre volte sono in bianco e nero, graffiati con la china, che parlano forte e chiaro, nero su bianco, come l’editoria giapponese del fumetto richiede, e che per questo, sembrano ancora più legati alla scrittura dove però, ciò che viene scritto non è la parola, ma direttamente il gesto, il sogno (tanto caro a Ingmar Bergman) e il simbolo.
Quando Calvino afferma che i classici sono quei libri che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire, possiamo essere sicuri che in questi termini allora Tekkon Kinkreet , la prima opera magna di Matsumoto è ormai diventato un vero Classico! E’ permeato di quella forza che soltanto i grandi capolavori della letteratura, inesauribili ed eterni, possiedono.
Tekkon Kinkreet usa insieme il linguaggio del mito, della leggenda e della favola. Ci sono i Gatti, Kuro e Shiro (Nero e Bianco) due fratelli orfani che come Sfingi si aggirano per il loro quartiere, ma anziché parlare per indovinelli, ci danno risposte semplici:
il cemento ha un odore, la notte è completamente diversa dal giorno, e l’estate dall’inverno. I soldi di carta valgono di più di quelli di metallo, dopo l’otto viene il nove, dopo l’inverno la primavera.
Shiro crede in Kuro e Kuro crede in Shiro, questa è la loro forza, lo strumento con cui sanno di poter governare sempre il loro mondo e trovare la pace, la tranquillità, la felicità e l’amore. Sono gli adulti che li dividono, e provano a spezzarli, nemici alieni che parlano un’altra lingua e minacciano la loro città Tesoro, (Takaracho nella traduzione della JPOP). Adulti che conoscono solo la violenza fine a se stessa, che si uccidono l’un l’altro, mentre la violenza cieca dei due bambini, altri non è che l’esasperazione di quel tanto caro ‘No’ che ci piaceva molto ripetere da piccoli, l’imperativo categorico che afferma, negando l’autorità degli adulti, la propria individualità. Shiro e Kuro non scodinzolano per nessuno, loro sono gatti, non cani, e come gatti reclamano a gran voce la loro indipendenza, il loro territorio, essi sono i custodi del loro mondo, si identificano col quartiere dove vivono, così come il bambino reclama la proprietà del suo giocattolo.
La lotta che Kuro e Shiro sono chiamati ad affrontare non è soltanto l’eterna battaglia del bene contro il male, è qualcosa di più complesso, è la lotta che ognuno di noi ha intrapreso per arrivare ad affermare se stesso, per emergere dalla confusione del mondo, quando ancora l’io non era formato, e il seme era ancora sotto terra.
Tekkon Kinkreet è una di quelle opere che da sola può reggersi in piedi per secoli e rimanere sempre nuova ed intatta, ma Sunny dal canto suo possiede la forza, o meglio, la delicatezza del segno e dello sguardo. Passano molti anni infatti dalla realizzazione di un’opera e l’altra, quest’ultima tecnicamente è molto più matura rispetto alla prima, anche grazie alla collaborazione con la moglie, Saho Tono, che ha aiutato Taiyo Matsumoto nella realizzazione del fumetto. I particolari, le scene, le dinamiche, sono descritti con lo stesso amore istantaneo che si prova ritrovando il tesoro perduto e disomogeneo, nascosto nel cassetto che non avevi più riordinato, e improvvisamente, due lire acquisiscono lo stesso valore incomparabile di un reperto antico.
Se Tekkon Kinkreet parla il linguaggio assoluto del mito, Sunny è un opera più personale e delicata, parla di un gruppo di bambini che vive in una casa famiglia, e le esperienze di ognuno di loro si sommano per dare voce all’esperienza personale di Taiyo Matsumoto, che come loro, ha vissuto un periodo lontano dalla sua vera famiglia. Ma se gli effetti di questa ferita esplodono in Tekkon Kinkreet, è in Sunny che trovano la loro vera cura, in un’intervista il Maestro affermava, che in realtà lui è presente in ogni bambino e in ogni personaggio della storia.
Matsumoto: Sunny is based on personal experience. I never used to talk much about when I lived separately from my parents, but now I find I can finally stand back and really get a good look at it. I think I needed time to put some distance between that myself and that experience in order to turn it into manga. I started it sort of hesitantly, but after drawing it for a while, I’ve come to feel that the characters are really all me. The children left at the orphanage, the parents who left them there, the people taking care of them at the orphanage — all of them are me.
fonte: https://mangabrog.wordpress.com/2013/03/15/24/
Grazie all’opportunità che la JPop ha offerto a dieci ragazzi, tra cui la sottoscritta, di fare delle domande al maestro durante il tour della sua mostra, posso testimoniare che Sunny non è solo una storia di abbandono, ma è anche il modo che Matsumoto ha usato per dire grazie. Un grazie un po’ in ritardo, a chi si è preso cura di quei Bambini Abbandonati, lui per primo, che all’epoca, troppo pieni di rancore verso il mondo degli adulti che li aveva scartati, non erano riusciti a esprimere la loro riconoscenza.
“non è incredibile come il sole sorga ogni giorno?”
“è soltanto la terra che ruota intorno al suo asse”
Sunny, Taiyou Matsumoto
Il vero tema di Sunny è la gratitudine, la redenzione dal passato, che viene finalmente liberato dalla sua sfera di solitudine e abbandono. La gratitudine verso la vita, che si rinnova sempre col sorgere del sole, verso la fede nell’amore, che riesce a dar senso persino al dolore, e il dolore e la solitudine diventano anch’essi il fondamento necessario per arrivare a conoscersi, ed imparare ad essere felici, a modo proprio, con gli altri e con se stessi. Sunny ha la forza della speranza, della gioia dei piccoli momenti, quelli che per quanto insignificanti possano sembrare, non verranno mai dimenticati, poco importa se questi momenti siano realmente accaduti oppure inventati, perchè l’artificio di creare storie sta anche nel saper riscrivere i propri ricordi, ampliandone il senso, come la bugia fa con la verità.
Matsumoto: Recently I’ve started to go all out and romanticize in my manga. I’ll take bad memories and turn them into happy stories in my manga, at least up until a point, anyway—I don’t want to insult the reader. (laugh) The characters say things that I wanted to say but couldn’t, and they don’t say the things that I regret saying. Sometimes it feels like I’m rewriting my memories.
fonte: https://mangabrog.wordpress.com/2013/03/15/24/
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scatole di latta
Nella prima infelice edizione di Tekkon Kinkreet datata 2007, della kappa edizioni, il sottotitolo dell’opera era ‘Soli contro tutti’, come Kuro e Shiro si ritrovano più volte e in maniera diversa ad essere. In Sunny, i bambini della casa famiglia, vivono costantemente con una crescente sensazione d’abbandono, che cercano a modo loro di superare. Sono molti i punti in comune tra questi due lavori, prova del fatto che nascono entrambi da una stessa esigenza di raccontarsi, e insieme raccontare la propria infanzia.
In <Tekkon Kinkreet, Shiro e Kuro vivono dentro una macchina, il loro ultimo baluardo di difesa contro i nemici, la roccaforte del loro mondo a cui tornano sempre quando sono persi. La Sunny invece, il modello della macchina che da il nome al fumetto, è il luogo dove i bambini vanno a rifugiarsi per scappare dal mondo, per giocare, raccontarsi i segreti e diventare grandi. Chiuse le portiere, dentro quelle scatole metalliche, i bambini si sentono al sicuro, e anche se entrambe le auto sono in realtà da rottamare, abbandonate anch’esse, forse anzi, proprio per questo loro aspetto di ‘residuo’, di ‘resto’, diventano in qualche modo ancora più importanti. Sono macchine che perdono la loro funzione, che diventano case, macchine in grado di volare, e che possono portarli ed essere ovunque e chiunque vogliano, attraverso il gioco e la fantasia.
Il gioco è il modo dei bambini per entrare ed evadere dal mondo che non li considera, le sue regole sono chiare e semplici, come nello sport, conservano sempre la consapevolezza della loro arbitrarietà. Se in Sunny i bambini giocano dentro la macchina, in Tekkon Kinkreet i bambini però giocano fuori dalla macchina, il gioco è il mezzo con il quale riescono a dominare il loro mondo e a trovare un posto in quello ‘grande’ degli adulti. Non è un caso che alla fine Haruo riesce a tornare a casa sua proprio grazie allo sport, un gioco di cui le regole, per il bambino, sono infinitamente più chiare rispetto a quelle complicate del mondo degli adulti.
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Tutto è possibile
Nella traduzione italiana del film Tekkon Kinkreet, Shiro ripete spesso una parola che viene tradotta come ‘sii felice’,( link: https://youtu.be/dMWkklLjAn4 ) mentre nella traduzione del fumetto, edito da poco dalla JPOP Manga, la traduzione diventa ‘stai tranquillo’. Una traduzione forse più letterale, ma non più vera, se teniamo conto del fatto che la ricerca dell’uomo non è quella di trovare la tranquillità, ma altresì la felicità! O meglio, una pace tranquilla sinonimo di felicità, in cui i nostri demoni interiori non si fanno più la guerra, ma vivono in armonia l’un l’altro, come Bianco e Nero. Ma per l’uomo, e soprattutto per l’adulto ‘razionale’, la vita non può essere BiancoNero, deve essere o Bianco o Nero, A è uguale ad A e diverso da B, A non può essere B, e B non può essere C, e perché no? direbbe un bambino! Con la nostra logica ferrea non siamo più in grado di vedere la bellissima contraddizione della vita, e ci lasciamo scappare la verità. In Tekkon Kinkreet, Kuro viene chiamato a vedere la “Verità“, confrontandosi con il lato più oscuro di se stesso, Il Minotauro, un mostro perso nel labirinto della violenza, che vorrebbe la vita chiara e semplice, che vede l’oscurità del mondo, e fa di questo il suo Credo, per lui A è A e tutto ciò che non è A non esiste.
”la gente accende la luce perché ha paura del buio, ignorano le ombre che gli circondano e fanno luce solo dove gli fa comodo. ma il buio è puro, nel buio non c’è ombra”
il Minotauro a Kuro, Tekkon Kinkreet
Il Minotauro è il mostro dell’Abisso, che conosce solo il Buio, vede solo il Buio e ama solo il Buio, ma la vita è complessa, è BiancoNero, LuceBuio, OdioAmore. Non esiste una Verità assoluta, Kuro questo lo apprende dalla Natura, grazie a qualcosa di piccolo, come un seme che sboccia, Kuro riesce a vedere infine, oltre il suo odio, riesce a vedere il sogno condiviso con Shiro, quel posto in riva al mare da dove, <<si vede tutto>>, BiancoNero, LuceBuio, OdioAmore.
E’ la Natura che col comune miracolo della vita, riesce a ridare a Kuro la speranza.
In Tekkon Kinkreet, Taiyo Matsumoto tocca davvero le corde del Mito, parla per simboli, forse ispirati dalle Muse, chissà! è l’istinto di scrivere, di raccontare, quello del bambino in lui che deve esprimersi, che crea. Esiste da sempre un legame privilegiato tra bambino e natura, e natura come manifestazione del divino, in ‘Gli Anni d’Oro’ di Kenneth Grahame, il bambino narratore della storia tramite il vento, comprende in altro modo, la stessa, verità a cui giunge Kuro:
Morte nella vita, e poi, Vita nella Morte. E guardandomi intorno e vedendo il terreno tutto cosparso di gambi di rapa rosicchiati dalle pecore, che nei giorni di gelo ormai trascorsi già ne avevano divorato i cuori, mi pareva di afferrare in lontananza il severo significato di quel suo intrepido inno.
E’ davvero questa la prima Verità che si acquisisce dalla terra, vagamente ma con forza, una verità semplice a umile, che sembra accessibile soltanto a chi riesce a conservare, come direbbe Paul Klee, lo stupore “dei bambini, dei pazzi o dei primitivi”, quel legame privilegiato con Dio o con L’Universo, che dir si voglia, e che crea l’arte. La forza che i bambini possiedono innata, e che gli adulti faticano a recuperare, sta proprio nel saper ri-creare la realtà, mettendo in moto una macchina ferma, facendola volare perfino! I bambini sanno che è tutta una questione di prospettive, che se tu sei piccolo, puoi essere un gigante in confronto ad una formica. I bambini sanno che tutto è possibile.
Mi chiamano piccoletto, ma sono più grande di una formica, non è vero? Devo sembrare un gigante a loro, si giusto, sono un gigante!
Taiyo Matsumoto, Tekkon Kinkreet
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Ritornare a casa
“Dunque saremmo stati qui”, diceva Walter Benjamine, uno dei tanti che ha cercato di carpire e capire l’infanzia, e che forse più di altri è riuscito a restituirle la sua dignità. Raccontando un aneddoto che gli era capitato da bambino, Benjamine, ricorda come durante una gita in montagna, prima di lasciare il posto, gli venne in mente che: ‘un giorno saremmo stati qui’. Nella mente dell’adulto Walter quel Qui è l’infanzia, luogo presente in cui noi ricordiamo di essere stati, e anche ‘luogo immaginario in cui continuamente torniamo:
“forse in cui continuiamo ad essere ancora più che a stare.[…] L’infanzia è l’occasione che abbiamo di essere noi stessi qui e perennemente altrove. Un’occasione per sentire che io è un altro, di sentire che dunque saremmo stati lì”. Come se lì da qualche parte, nascosto nelle pagine ingiallite dal tempo, ci fosse sepolto un segreto importante, qualcosa che abbiamo sempre saputo ma che con gli anni abbiamo dimenticato. Pochi autori sono stati così coraggiosi da mettersi davvero alla ricerca di questa Età Perduta, L’Isola che non c’è, una Città Tesoro, in cui come fantasmi, ancora si muovono i bambini che eravamo. Taiyo Matsumoto, è sicuramente tra questi, perchè se è vero che fare un lavoro sull’infanzia vuol dire necessariamente guardarsi dentro, allora è altrettanto vero che non può essere soltanto una scrittura di intrattenimento, o come direbbe Tolkien, non può essere solo “la disdicevole fuga del disertore”
ma piuttosto “l’evasione del Prigioniero”, che con un cucchiaio si scava piano piano la via verso la libertà, verso la felicità, con fatica e dolore, ma che alla fine, quando respirerà la prima brezza d’aria fresca, sentirà entrare nei suoi polmoni direttamente, la vita!
E chi è riuscito ad evadere, e a ritornare in quel piccolo regno, ha saputo restituirci l’affresco di una civiltà immaginaria ed eterna, sfuggevole e misteriosa, depositaria di quella Verità che non può essere parlata, ”di quell’ebbrezza di esistere che è felicità, pura e sufficiente”. Chi scrive dell’infanzia, della sua infanzia, come Taiyo Matsumoto, Tove Jansson, Ingmar Bergman e tanti altri ancora, cerca in definitiva con le sue piccole spalle di farsi posto a ritroso nella corrente del tempo, per riprendere qualcosa che sapeva essere suo già dall’inizio: il Mondo.
Bibliografia
-Figure dell’infanzia, Walter Benjamine, a cura di Francesco Cappa e Martino Negri
-Lanterna Magica, Ingmar Bergman
-L’età D’oro, Kenneth Grahame
-Tekkon Kinkreet, Taiyo Matsumoto
-Sunny, Taiyo Matsumoto