MA PERCHÉ FATE SEMPRE MORIRE I NONNI?
C’è un fenomeno abbastanza curioso che riguarda i testi che mi arrivano, ma che ho scoperto, confrontandomi con un po’ di colleghi e amici editori, arrivano in generale alle case editrici.
Si tratta dei testi mortiferi.
IL CANTORE DELLA MORTE
Lo so, non dovrei essere proprio io a scrivere questo articolo. Io che sulla morte ho prodotto tanti libri da finire anche in una tesi di laurea (molto bella e che conservo con piacere tra i miei cimeli.
Mi pare si intitolasse La morte nei libri di Davide Calì. (Io cercai di cambiare il titolo in Davide Calì, il tristo mietitore, ma la studentessa era un po’ timida e preferì rimanere sul classico). Comunque, libri sulla morte ne ho prodotti diversi.
Da Moi j’attends (che non parla propriamente della morte, ma poi finisce un po’ lì) a Petit inuit et les deux questions (illustrato da Maurizio Quarello), da L’isola delle ombre (uscito di recente con Orecchio Acerbo, illustrato da Claudia Palmarucci) alla serie a fumetti Cruelle Joëlle (che trovate ancora nel catalogo di Sarbacane), ho esplorato la tematica ampiamente.
Però, ho scritto molti più libri sull’amore, e ancora più libri comici.
Cruelle Joëlle infatti è una serie comica.
In Moi j’attends si parla della vita, di cui la morte fa parte, ma che non rappresenta la fine di tutto.
In Petit inuit et les deux questions la morte è un alce bianco, molto saggio, che conosce tutto e tutti, e sarà fondamentale per la crescita del piccolo protagonista.
Ne L’isola delle ombre la morte è una scoperta, una sorpresa. Ma anche in quello, c’è una speranza.
Ecco, nella maggior parte dei libri che ricevo, la speranza non c’è. Di solito muore la nonna o il nonno. Oppure la mamma. Qualche volta muore di cancro a pagina due. Il resto è solo dolore.
Mi arrivano storie di bambini che muoiono di malattie inesorabili. Dove i nonni non muoiono, di solito hanno l’Alzheimer. Anche su questo tema sto scrivendo anch’io, ma anche lì, sto cercando di allontanarmi dal dolore in sé, raccontando le cose in un modo che non sia meramente una cronaca realistica di quello che succede. Anche perché, nella sua tragicità, la condizione offre molti spunti dolci o divertenti.
La maggior parte delle storie che mi arriva, anche su questo tema, si focalizza invece unicamente sul dolore.
Ora, tutte queste cose accadono nella vita reale e sono terribili da affrontare, i libri ci possono senz’altro aiutare a capire la sofferenza, a condividerla, ad attraversare un momento difficile.
Però, non possono servire soltanto a questo. Nelle proposte che ricevo, manca varietà, gli aspetti tragici della vita hanno percentualmente il sopravvento, come se non vedessimo un futuro, di nessun tipo. È come se la vita non ci prospettasse che tragedie e soprattutto come se alcuni personaggi che la popolano, come i nonni, non esistessero che per scomparire.
L’APPROCCIO AMERICANO
Lavorando con gli americani da parecchi anni, ho scoperto un approccio completamente diverso ai libri per bambini.
In America, negli albi illustrati si respira felicità. Non si parla di eventi tragici, niente guerre, niente pestilenze, non muore nessuno. Non si parla di povertà, di inquinamento e di nessuna delle altre calamità che ingrigiscono i nostri giorni. Nei loro libri i bambini vivono giorni felici, avventure fatte di scoperta e di amicizia.
Le eccezioni ci sono, ma sono abbastanza rare. In principio, questo approccio mi è sembrato strano. Mi sono chiesto che senso avesse censurare i libri quando il mondo, con i suoi problemi, entra comunque in casa attraverso la TV, internet e tutto il resto.
E poi i bambini, hanno domande, muore il vicino di casa e ti chiedono: dove è andato? È una cosa naturale.
Vedono un povero e si chiedono: diventeremo poveri anche noi?
Non sono domande campate in aria. I bambini hanno bisogno di certezze.
All’inizio, come dicevo, il non voler trattare certi temi mi è sembrata una facile scappatoia per evitare domande e riflessioni. E un modo per rinviare a data da destinarsi i discorsi seri, sulla vita, la società, la politica.
Contemporaneamente però, dalla nostra parte dell’oceano, ho visto moltiplicarsi i libri per bambini che parlano di guerre, di fame, di Olocausto, di profughi e ho cominciato a chiedermi: è davvero necessario, parlarne con i bambini?
Nel senso, un bambino di 6 anni, non può vivere la sua età sereno, senza che noi gli si scarichi addosso il peso della storia e dell’attualità?
Sì, perché lo scopo, mi sembra che alla fine sia spesso colpevolizzare i bambini.
Ancora di recente, ho letto il post di una maestra che raccomandava certi titoli a scuola, perché i bambini di oggi si rendessero conto di quanto sono fortunati. Non è una visione un po’ troppo penitente della vita?
Le tragedie altrui servono per capire che siamo fortunati?
Dobbiamo espiare la nostra felicità come se ne fossimo colpevoli?
Sto divagando, lo so.
Il fatto è che non ho una risposta, solo domande.
Serve infliggere ai bambini dolore anzitempo per un mondo malato, inquinato, razzista e tutto il resto?
Non possiamo tenercelo per noi ancora un pochino e provare a illuderli che vada tutto bene?
Non possiamo parlare del mondo in modo realistico, ma anche cercare una soluzione, immaginarci insieme a loro qualcosa che somigli a un futuro?
Perché ci sembra fondamentale portarli a vedere Auschwitz e non un centro di ricerca spaziale?
Non sono in opposizione l’uno dell’altro, no?
E i nonni? Dobbiamo farli morire per forza?
Non possono fare qualcosa di diverso?
Perché abbiamo bisogno di tanto dolore?
DOMANDE SENZA RISPOSTA
Questo articolo è diventato una seduta di psicoanalisi, ma non mi dispiace.
Credo che alla fine, quando scriviamo, dobbiamo anche chiederci cosa vogliamo raccontare, cosa abbiamo bisogno di raccontare e perché.
La maggior parte delle storie dolorose che ricevo si portano dietro un’esperienza simile di qualcuno e quindi il bisogno, da parte di chi scrive, di catarsi.
Il fatto è che per scrivere dei propri dolori e delle proprie perdite, occorre un certo distacco e non è il libro a dartelo.
Il libro sarà forse il risultato finale, ma non il mezzo, con cui allontanarsi da certi ricordi.
Detto questo, a torto o ragione, gli editori con cui lavoro mi chiedono storie divertenti, storie di scoperta, di amicizia. Ciò non esclude le storie melanconiche o tristi, ma, come capirete, è anche una questione di numeri e di cosa fanno gli altri.
Se tutti si buttano, faccio per dire, sull’Alzheimer, dopo un po’ nessuno comprerà nessun libro sul tema, oppure nessuno di quelli usciti in quantità sufficiente per mantenerli sul mercato. Ma questo vale un po’ per tutto quello che è tematizzato.
Quindi, in definitiva: provate a concentrarvi su qualcosa di più leggero!
Provate a ricordarvi com’era essere bambini e correre senza motivo, solo per sentire l’aria calda dell’estate. Credo che nei nostri libri debba finire più di quell’aria e anche di quella spensieratezza e meno dell’adulta consapevolezza che ormai il mondo è fottuto.