
Intervista a Marco Paschetta
Marco Paschetta è illustratore e fumettista, insegna illustrazione alla Scuola Internazionale di Comics (Torino) e realizza laboratori didattici e workshop per ragazzi ed adulti. Il suo lavoro è stato esposto al Festival International de la Bande Dessinée d’Angoulême (Francia), al Festival Internacional de Banda Desenhada di Amadora (Portogallo), al BILBOLBUL Festival (Italia). Le sue illustrazioni sono state selezionate alla 31° e 35° Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia di Sàrmede. Pubblica in Italia e all’estero con editori e testate come Magellan & Cie editions, Abuenpaso, Piemme edizioni, Bang Ediciones, Internazionale, Le monde Diplomatique, La Lettura del Corriere della Sera, Focus Wild, EDT Giralangolo. All’inizio del 2019 è stato inserito da Davide Calì nella cinquina di illustratori da seguire:
“Marco è secondo me uno degli illustratori più originali del panorama italiano. Mi piace molto la sua palette delicata e la sua dichiarata passione per la natura e le montagne.”
Davide Calì su frizzifrizzi.it
Ho conosciuto il lavoro di Marco qualche anno fa alla mostra Le Immagini della Fantasia dell’Associazione Stepan Zavrel di Sarmede. Lo ritrovai per caso, sfogliando Internazionale al bar; era un contributo di graphic journalism in forma epistolare che raccontava la sua esperienza – in bici – a Tenerife: cenni storici, geografici, geologici, parentesi poetiche e citazioni.
Mi colpì subito quello stile originale dai contorni un po’ evanescenti, onirico, come di immagini impresse sulla retina di occhi abbacinati dal sole, eppure con una componente plastica di solida tridimensionalità, in cui convivono la dimensione poetica ed introspettiva del sogno e quella concreta del gioco, dell’esperienza come scoperta analitica. Troviamo questi ingredienti sia nei testi delle sue storie che nei suoi disegni: semplici e profondi, naturali e complessi, tra istinto e riflessione. Sfaccettature di una visione sensibile, matura, sempre capace di meravigliare, e di meravigliarsi come quella di un bambino.

Ciao Marco, sappiamo dalla tua biografia che sei illustratore e fumettista autodidatta. Questo suscita certamente meraviglia, guardando le tue tavole: vuoi raccontarci brevemente come hai “costruito” il tuo percorso artistico e come hai raggiunto uno stile così incisivo?
Ciao Daniel, la costruzione che è avvenuta fino ad oggi non ha seguito un tragitto lineare e ancora adesso, se mi volto idealmente a ricordare, non riesco a decifrare con chiarezza i suoi passaggi. Dopo il diploma da chimico iniziai a lavorare. Ho cambiato molti lavori, alcuni anche all’estero. La costante che ha legato quegli anni, che ora ricordo come un lunghissimo autunno, è stato il disegno e il desiderio di raccontare attraverso le figure.
Ho sempre disegnato, letto e osservato molto. Ma anche in questo caso, il “molto” non sono mai riuscito a quantificarlo e ancora adesso mi sembra impossibile dargli un peso, una quantità.
Lo stesso credo valga per lo stile. Ho attraversato periodi, più o meno lunghi, nei quali mi sono innamorato di fumettisti e illustratori,
pittori o scultori. Ma anche in questo caso non riesco a trovare con facilità una spiegazione razionale al perché si giunga a disegnare in un certo modo piuttosto che in un altro.
L’unica cosa che mi sembra di aver compreso è che lo stile è legato indissolubilmente con le esperienze che si vivono nella vita. Quando qualcosa muta nella vita, muta anche il segno. Mutano i colori e le palette cromatiche che si utilizzano. Così è accaduto a me, se guardo i disegni che ho realizzato in tutti questi anni.

Che si tratti di illustrazione o fumetto, dal tuo lavoro traspare un rapporto speciale che ti lega alla natura e so che appena puoi prendi la bicicletta e parti, preferibilmente verso la montagna: sono esplorazioni senza meta o ti prefissi sempre un punto di arrivo? C’è qualche analogia o complementarità con la tua produzione creativa?
Amo molto la natura e sto imparando a conoscerla a mano a mano che il tempo passa. Mi piace scoprirla, attraversarla senza fretta e osservarla nelle sue incredibili manifestazioni. La meta mi piace perché trovo rinvigorisca il desiderio e il piacere di attraversare un territorio. Inoltre trovo infonda capacità di orientarsi in uno spazio, di visualizzare dei riferimenti fisici che appartengono al territorio.
Il tragitto però (e per fortuna) è comunque sempre una incognita e questo rende una camminata o una pedalata un qualcosa di più “ampio” e di avventuroso.
Attraversare uno spazio fisico credo presenti analogie con l’attraversare le immagini. Il cambio di altitudine porta con sé un cambio di vegetazione, di abitanti, di colori e di panorama. E questo trovo accada anche all’interno delle immagini che raccontano una storia.
Percepisco però anche la complementarietà tra cammino/pedalata e disegno perché mentre una è una attività dinamica, l’altra invece è statica. Il loro mescolarsi mi aiuta sia per la quantità di stimoli che si trovano nello stare all’aria aperta, sia per la concentrazione casalinga di cui invece necessita il disegno.

Ti è mai successo qualcosa di insolito, inaspettato, particolarmente bello o spaventoso durante il tuo girovagare in solitaria con la bici?
Si, capita spesso qualcosa di inatteso e fortunatamente fino ad ora, mai di così brutto. La diagonalità dei sentieri mi obbliga a procedere con calma. Così capita spesso di osservare fenomeni atmosferici straordinari, luci o animali selvatici che con la loro forza misteriosa attraversano i crinali o i prati intorno.
Ricordo con stupore l’incontro con una piccola nuvola che si era arenata al fondo di un crinale. Era solitaria, in un pomeriggio autunnale dal cielo terso. Distava pochi metri dal manto erboso e si muoveva leggermente ma senza mai fuggire da quel
fazzoletto di terra. Stava lì, viva e presente come un’animale che bruca l’erba.

Uno degli ultimi albi a cui hai lavorato, “Semillas: un pequeño gran viaje” (Abuenpaso, 2018), sembra ideato apposta per essere illustrato da te: ci racconti la genesi di questo lavoro? Com’è stato il rapporto con José Ramón Alonso, scrittore di questo libro? Hai imparato qualcosa di nuovo sulla natura?
“Semillas” è nato, inaspettatamente, dall’incontro con Arianna Squilloni, editrice di A Buen Paso. Ho conosciuto Arianna a Barcellona, durante un mio piccolo viaggio in città. E’ stata proprio Arianna a chiedermi, seduti al tavolino di un bar di Gràcia, se avevo un argomento che in quel periodo mi stava a cuore. Ed è stata sempre lei, una volta che ha saputo che amavo i semi e il loro significato, a progettare e costruire insieme a José Ramón Alonso (con il quale aveva già lavorato al libro “Seres Asomboros” illustrato da Riki Blanco ) il libro dei semi.
E’ stata per me la prima volta che un’editrice ha costruito un progetto di libro partendo da un argomento che mi stava a cuore. Questo ha reso per me “Semillas” un libro veramente speciale e non ringrazierò mai abbastanza Arianna per il suo entusiasmo e per questa incredibile opportunità.
Grazie a José Ramón Alonso ho potuto immergermi nel mondo dei semi, nel loro incredibile viaggio fatto di aria, terra e acqua. Ho imparato molto a riguardo e il suo testo mi ha anche fortemente suggestionato. Purtroppo non ho ancora avuto modo di incontrarlo di persona ma spero accada presto.

Alla tua attività professionale creativa affianchi quella dell’insegnamento, in particolare diretta ai giovani: com’è il vostro rapporto e che tipo di riscontro hai da parte loro?
Da alcuni anni collaboro con la Scuola Internazionale di Comics di Torino. È per me una esperienza importante, intensa e molto formativa perché mi pone costantemente in discussione. Mi obbliga a trovare soluzioni che probabilmente non immaginerei neppure e questo accade grazie alla relazione che si costruisce con gli studenti. Mi accorgo di come ogni classe sia un “organismo” a sé, di come le necessità di ogni allievo/a mutino in base agli anni e in base al tipo di progetto proposto. L’incredibile varietà di studenti della scuola mi porta a vedere in loro molta bellezza “germogliante” ed è per me un riflesso importante perché non credo avrei modo di osservarla altrove.

Per alcuni workshop (come quelli con l’Associazione Autori di Immagini) hai scelto di prendere in esame il formato “leporello”: una lunga striscia di carta piegata a fisarmonica. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?
Quando anni fa scoprii il leporello mi emozionò molto per la sua apparentemente semplice costruzione cartotecnica e la sua forma bizzarra. Lo incontrai nuovamente in seguito, quando acquistai alcuni libri a leporello di André Letria, editi in Portogallo per Pato Logico. Trovo che questo formato sia speciale, ideale per raccontare storie contenute che avanzano piega dopo piega, e proprio per questo prezioso. È per queste ragioni che ho pensato di progettare un workshop legato a questo formato.
Hai voglia di spiegarci brevemente la tua tecnica?
Lavoro sia con la tecnica tradizionale che con quella digitale. Amo anche la loro commistione e le incredibili possibilità che questo permette.
Se penso alla mia tecnica penso ad una parola-seme che affiorò in me qualche anno fa: Alone.
Per me le immagini nascono sul foglio bianco come aloni, come impressioni che in principio sono deboli macchie dai bordi sfumati. Ho imparato con il tempo ad aiutarmi in questo, sbattendo ripetutamente sul foglio di carta piccoli pezzi di straccio macchiati dal colore dei pastelli morbidi. Poi c’è la grafite in polvere che contribuisce a sottolineare l’alone. Le forme, successivamente, vengono definite come figure che escono da questa nebbia.
E’ un processo di immersione e fuoriuscita dall’alone perché, ad esempio, se lo sguardo di una figura che ho disegnato non mi convince, la costringo a ritornare nell’alone (battendoci sopra con lo straccio macchiato di colore fino a che non ha perduto la sua forma) e tento di ridisegnarla.
In questo modo trovo che il controllo e la casualità giochino amabilmente, senza obbligare all’angolo una delle due.

Vuoi menzionare un illustratore del passato ed uno contemporaneo che ammiri particolarmente?
Un illustratore che mi ustionò letteralmente fu Lorenzo Mattotti. Lo conobbi in un album a fumetti intitolato “Fuochi”, una storia in bilico tra realtà e sogno, edito per Granata Press a inizio degli anni ’90. Lo trovai seminascosto sullo scaffale di una libreria della mia città e lo sfogliai avidamente, letteralmente rapito dai colori, dalle forme che sembravano correre oltre i bordi delle vignette. Anche la storia raccontata mi aveva fortemente emozionato mostrandomi un altro modo di fare fumetti rispetto a quelli che ero abituato a leggere fino a quel momento. Fu così che conobbi quello che un tempo era definito come “fumetto d’autore”.
Un illustratore del passato che ho sempre ammirato è Leonardo Mattioli. La sua interpretazione del Pinocchio di Carlo Collodi sembra essere collocata in uno spazio senza tempo. L’uso emotivo del colore, l’elegantissima stilizzazione delle immagini e la scelta di luci ed ombre che sembrano giocare ad alternarsi mi colpisce ogni volta che osservo il suo lavoro. Mi sembra un illustratore moderno e arcaico allo stesso tempo.
Hai un animale ed una pianta preferiti?
Amo molto gli animali e sono cresciuto in compagnia di Millo, un cagnolino dal pelo bianco a macchie marroni. Purtroppo ho scoperto di essere allergico al pelo dei cani e dei gatti ma se potessi, vivrei volentieri in loro compagnia.
Una pianta che in questo periodo osservo è l’albero del caco. Lo vedo dalla finestra della mia stanza, grande in un piccolo prato che si trova dietro al condominio nel quale abito.
In questo periodo dell’anno i frutti arancioni sono gli unici a restare appesi ai rami e sono meta fissa del vagabondare di gazze, passeri e corvi. Poco dopo il tramonto, però, tutti gli uccelli volano via misteriosamente. Al loro posto compaiono i topi. Salgono in tre o quattro lungo il tronco dell’albero. Li vedo stagliarsi come figure di un teatro d’ombre e muoversi repentinamente lungo i rami, passando da un frutto all’altro prima che arrivi la notte.