Diario di un’illustratrice – muri del pianto
Che Gerusalemme e la religione ebraica non se ne abbiano a male per il titolo di questo primo capitolo dei miei articoli. In realtà è preso dal nome che il popolo dell’illustrazione ha dato al muro in cartongesso del Bologna Children’s Book Fair su cui, ogni anno, aspiranti illustratori alle prime armi (ma anche già avviati) lasciano biglietti da visita, depliant, fino ad arrivare a sofisticate tecniche di supporto e dispenser artistici per la loro pubblicità. Ma questo ormai molti di voi lo sanno già…
Trovo necessario in un sito divertente, allegro e interessante nei suoi contenuti come questo di Ad un tratto, avere un blog in cui ironizzare sui luoghi comuni del mestiere dell’illustratore. Come, appunto, il muro del pianto.
Le mie saranno più che altro riflessioni a tema, trattate con ironia, ma non per questo poco istruttive. L’ironia sarà solo un mezzo per farvi entrare nel mondo e nella testa di un illustratore senza essere pesanti, evitando di fare trattati introspettivi di una mente (spesso) distorta come la nostra: una sorta di “diario” dell’illustratore.
Non vi risparmierò neanche i giorni “blues”… in cui il mio modo di scrivere rifletterà il mio stato emotivo. Dopo tutto è una deformazione professionale esprimerci a seconda della propria luna e coordinate astrali: siamo così… dolcemente complicati.
Non mancheranno neanche situazioni grottesche di vita familiare: perché capita spesso che una donna illustratrice, prima o poi diventi anche madre (non necessariamente, ma ci sono diversi casi di mammaggine in giro) o che diventi illustratrice diventando madre… E posso assicurarvi che nel nostro mestiere le famose frasi “Non portarti a casa i problemi di lavoro” e “non portarti a lavoro i problemi di casa” è pressochè impossibile. Ma questo sarà argomento di un prossimo articolo.
Buona lettura! (Spero…).
Nel mio lavoro di illustratrice e insegnante della Scuola di Illustrazione di Scandicci, ci sono un paio di sostantivi che mi fanno trattenere il respiro: uno è l’attributo di “artista”. Un po’ abusato, a parer mio.
Cosa vuol dire essere artista? È un modo di essere? Una qualità? Un …difetto (per molti si, purtroppo)?
Qualcosa che scegli o che nasce con te? Secondo la Treccani, Wekepedia e… anche me:
Nel senso più ampio l’artista è una persona che esprime la sua personalità attraverso un mezzo che può essere un’arte figurativa o performativa. La parola viene usata anche come sinonimo di creativo.
Ma chi lo è, spesso, neanche si accorge di esserlo.
Mi spiego meglio:
Al di là che io lo faccia per lavoro o per passione, molti che vengono a conoscenza del fatto che disegno, anzi pardon, che mi piace disegnare (perché disegnare lo fanno e lo possono fare tutti al di là dell’armonia estetica), il commento è spesso :
“ah! Ma allora sei un’artista!”
“Si? in un certo senso si… forse!”
Ritorno alla domanda iniziale: c’è chi vuole/ decide di fare l’artista o c’è chi, come me, ad un certo punto della sua vita le hanno fatto notare di essere tale senza esserne a conoscenza?
Per me disegnare è un’esigenza fisica e mentale.
Quando non lo faccio vuol dire che dentro di me c’è qualcosa che non va. Un campanello di allarme.
È un’esigenza naturale, come mangiare e dormire. È un po’ come se a uno verso i 17 anni gli chiedessero:
” ah! Ma allora sei un dormitore (o un mangiatore o un respiratore)!”
“ah si? Mah! Veramente non saprei… L’ho sempre fatto! Oddio… non vorrei, adesso che me lo hai fatto notare, che non mi riesca più farlo!”
Come quando rischi un tamponamento perché ti chiedono in quale marcia sei o come fai a frenare la frizione: panico, non lo so! Lo faccio senza pensarci!
E mi limito a riflettere solo per quanto riguarda il disegno perché, illustrare, è ovviamente un grosso e studiato passo successivo poiché devi conciliare e applicare le tue capacità e la tua passione del disegno con regole e necessità comunicative, editoriali e compositive: ma a questo punto diventiamo artigiani… ed è tutto un altro articolo!
L’altro sostantivo che mi fa trattenere il respiro, ma soprattutto rabbrividire è “personaggino”.
“Che belli questi personaggini che fai….”
Person… cheee??!!! Personaggini?! Se mai PERSONAGGI! Mi si offendono così! Hanno una loro dignità! Detto così sembrano privi d’anima! Ehi! Guarda che loro respirano….Non si vede, ma respirano! Hanno un background! Una storia! Dei sentimenti! Sanno chi sono e da dove vengono, molto più di te che li chiami “personaggini”!
Il personaggio di una storia, di un racconto, se riesce a narrare qualcosa anche solo all’interno di una sola immagine senza parole, la loro esistenza non finisce all’interno del solo foglio in cui purtroppo, per forze maggiori, sono relegati!
Io le definisco “creature”.
Sono le mie creature. Come i miei bambini. L’ho partorite con tutto il mio corpo! Me ne prendo cura man mano che crescono: le vesto con abiti che si addicono alla loro personalità, al loro status, ai loro sogni, le metto nella posizione migliore, ne scelgo la luce, il gesto, l’atteggiamento e la postura che meglio esprima il loro carattere, ne seguo la regia come fossero attori. Insieme gioiamo, soffriamo e ci commuoviamo. Voglio il meglio per loro! Me ne innamoro ogni volta che le guardo e non perché penso “uh! Ma come sono brava” ma perché ogni scarrafone è bello a mamma sua!
Toh! Eccone proprio uno che sta passando casualmente da queste parti… Che tipa! Neanche si gira per salutare… Caratterino! Chissà da dove sta tornando tutta decisa a quel modo…
Se chi guarda si fa queste domande, anche solo inconsciamente… ecco che il “personaggino” diventa personaggio e continua a vivere dentro la vostra mente perché ha instaurato con voi un dialogo, una comunicazione.
Se l’illustratore dialoga con i suoi personaggi, loro dialogheranno con un linguaggio con il lettore.