Contenuto #2: il linguaggio nell’illustrazione
La fiera di Bologna mi girava intorno.
Centinaia e centinaia di ragazze e signore in abiti eccentrici, colorati ragazzi che sprizzavano artisticità da ogni singolo capello verde. Stand pieni zeppi di libri illustrati e meravigliosi editori seduti dietro i loro volumi pronti a sorriderti. O quasi.
Camminare.
Questa era l’unica cosa che mi riuscisse di fare.
Anzi, una delle due cose. L’altra era infilarmi con esagerato interesse all’interno di ogni stand dove mi pareva possibile mostrare il mio book. Ovviamente, ne uscivo immediatamente, col senso di frustrazione a rincorrermi, perché il coraggio ancora non s’era degnato di farsi vivo.
Poi, tra il camminare e il fuggire, mi colpì lo sguardo di una donna bruna, svelta, seria ma non triste.
Non so come ma mi ritrovai a mostrarle i miei disegni.
Così, quella primavera, la passai a trovare il modo di disegnare un ragazzino che sembrasse un genio ed un piccolo cucciolo di cane. Poi ad abbozzare una sequenza di illustrazioni. Poi a modificarle. Poi a cercare la via di rendere definitive quelle bozze.
Si, perché avendo firmato il mio primo contratto avevo una bellissima deadline da rispettare, avevo imparato cosa fosse una doublespread e cosa significasse brainstorming.
Quello che ancora non sapevo era che, a breve, sarei salito su un aeroplano per essere ospite del mio editore.
Becky Bloom.
Siphano Picture Books.
Quartiere Kolonaky, Atene.
Proprio nell’appartamento a fianco a quello in cui Le Corbusier e tutti gli architetti del CIAM firmavano la Carta di Atene. Qualche decennio prima, certo.
Un appartamento con un bel terrazzo dal quale si vedeva l’acropoli, sporgendosi un po’ a destra. A sinistra, ad un metro dal parapetto, c’era lo spigolo di un altro palazzo costruito successivamente.
Becky aveva un marito e tre figli grandicelli, due ragazzi e una ragazza, dei quali non ricordo il nome. Gente piacevole davvero. Allegri e ospitali. Parlavano una lingua ibrida mista tra inglese, americano, francese e greco. A seconda dell’occorrenza usavano l’una o l’altra, chissà con quale grammatica.
La sensazione was che appena cominciavi a capire quelque chose ti rimescolavano all le cartes à jouer in tavola e καληνύχτα! (Kalijnychta… buonanotte, per i meno smaliziati.)
Per contro scoprii che la “S” greca è davvero deliziosa e che Αναγνωστόπουλος si dice Anagnostopùlos e non Anagnostòpulos come sarebbe logico aspettarsi.
Scoprii anche che aveva ragione il mio professore di storia dell’architettura all’università, Francesco Paolo Fiore: non lo stile, ma il linguaggio.
Ancora un altro contenuto da tenere presente.
Eh già!
Perché se è vero che illustrando dobbiamo raccontare, sarà il caso che lo si faccia come si conviene e che, soprattutto, non si rischi di essere fraintesi.
La grammatica delle immagini è la parte strutturale di questo linguaggio. Il modo in cui utilizziamo questa grammatica è la parte poetica o narrativa.
Lo stile, al contrario, è roba da accademici dell’ottocento. Lo stile è quella sfilza di aspetti formali (legati alla forma e poco alla sostanza), di stilemi appunto, che formano la superficie. A noi non serve. Cosa ce ne facciamo? La cosa buffa è che molti esordienti, ma non solo loro, ambiscano ad essere riconosciuti per lo stile, invece che per il linguaggio.
Come se un pittore volesse essere riconosciuto perché usa tanto, tanto, rosso. E se un giorno si stufasse e volesse usare il blu?
Quando non hai altro che la forma, o le forme… i nasi a punta, gli occhi distanti, il segno sporco, le teste grosse, le gambe a stecchino, le signore cicciotte, i pantaloni a righe, il rosso… per definire qualcosa, allora usi lo stile. Quando vuoi raccontare, al contrario, scendi nel profondo, nell’emotività, nel dramma vero della faccenda. L’intreccio narrativo abbisogna di attori credibili. E la scenografia deve reggere le circostanze. La coerenza, la plausibilità anche dell’impossibile, se narrato. E Cappuccetto Rosso non può essere solo un cappuccio, ma deve avere la sostanza di una bambina, sotto. Come l’ossido del rame o lo sguardo sull’insetto. E se Cappuccetto ci guarda, dalla pagina, noi che siamo fuori, non può lasciarci indifferenti, non può farlo per caso, non può. E non basta un cappuccio particolarmente puntuto o un nasino grazioso assai. Serve lo sguardo e tutto quello che c’è dietro.
Ogni linguaggio ha la sua regola. Regola in senso ampio del termine: l’insieme delle sue regole, siano esse grammaticali o morali o poetiche. L’espressione dell’illustrazione attraverso un linguaggio compiuto, efficace, è un fatto importantissimo.
Forse, tra tutti i “contenuto” quello più difficile da realizzare.
Difficile perché non è facile capire quale sia la regola della propria poesia ed è molto meno facile di imparare la tecnica per esprimerla.
Quando il linguaggio è completo, però, è come se scattasse un interruttore ed una luce illuminasse tutto il mondo che abbiamo costruito. Ogni cosa è al suo posto. Tutto funziona. Tutto racconta.
Qualcuno, osservando, si emoziona.